Ho trascorso quasi un’ora sopra questo arco ( S’ Archittu) insieme a un amico. Volevo provare a tuffarmi come facevano gli altri.
E a sfidare la mia paura.
Ho trascorso tutto questo tempo ascoltando il battito che ha iniziato a vibrarmi nella gola, guardando giù.
Cercavo le parole giuste, la formula convincente, nel dialogo con chi era in quel momento il mio compagno d’avventura che a un certo punto, mentre io ero persa nella mia ossessione amletica, se lanciarmi o meno, e sui potenziali effetti catastrofici, mi dice: “hai prezzemolo nei denti”.
E in quel momento, conscia della fregola con arselle del pranzo, mi sono anche preoccupata che mi aiutasse a levarmi il verde dai denti prima della grande impresa.
Le persone sotto che attraversavano le acque in canoa cercavano di incoraggiarmi col telefonino in mano, promettendomi di immortale il mio coraggio.
Ma niente! Non sono servite le parole, la mano tenuta, gli sguardi colmi di affetto e le risate.
Volevo dimostrare di riuscirci, ma lui saggio, mi ammonisce dicendo che stavo facendomi guidare dall’ego e ce ne saremmo dovuti andare.
Alla fine ci ho rinunciato, lui si è lanciato e poco dopo ecco la frase della me bambina, uscita bypassando non so come la mia coscienza: “ma ora che non mi sono tuffata, mi vuoi meno bene?”.
La bambina ferita (declinatevelo voi al maschile) è dentro di noi, ci accompagnerà per tutta la vita, e necessita di grande amore tutte le volte che si desta per richiamare la nostra attenzione, quando ci sentiamo più vulnerabili.
A cosa serve il lavoro su di sé?
Ad amarla profondamente e a smetterla di giudicare la nostra fragilità.
Allora che ho fatto?
Ho raccontato al mio amico di quando da piccola, per rendere il mio papà fiero di me, sfidavo la paura facendo i tuffi.
Ma ora non sono più piccola.
E non devo dimostrare niente.
Buon amore.